Verso il postumano disincarnato, di Giuseppe O. Longo

 

Estratto da

Giuseppe O. Longo, Il simbionte. Prove di umanità futura,

Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 75-83.

 

Come ha mostrato la storia, già il tentativo di codificare la mente per trasferirla dal supporto originario in un altro comporta semplificazioni e distorsioni essenziali che rendono il risultato molto discutibile. Eppure molte attività della mente sono formali, appartengono cioè al mondo dell'informazione: sono più vicine alle dimostrazioni che al latte, ed è su questa che si è basata l'intelligenza artificiale funzionalistica. Ma il corpo, per la sua natura fisica e biologica, è più vicino alla mucca che alle dimostrazioni, perciò quando se ne estrae l’informazione per incarnarla in un altro supporto, molte sue caratteristiche originarie (molti suoi effetti sul mondo) vanno perdute. Queste caratteristiche potrebbero comprendere la possibilità di nuotare, di mangiare, di far l'amore... e tutto sta a vedere se vogliamo considerarle essenziali oppure no per la definizione di corpo, o meglio per considerare il nuovo supporto un sostituto accettabile del corpo.

Per alcuni il corpo codificato sarebbe solo un simulacra di corpo, che non ne conterrebbe tutta l’essenza. Insomma se volessimo dissolvere il corpo trasformandolo in uno sciame di bit in attesa di nuova destinazione non potremmo farlo fino in fondo: non potremmo travasare nel software tutta la resistenza e la sodezza e la ricchezza della materia e quindi la reincarnazione sarebbe incompleta. II corpo continuerebbe dunque ad essere l’orizzonte assoluto della nostra esistenza, l'ultimo ostacolo all'immersione totale nella virtualità. II corpo reale non si potrebbe ridurre a un fantasma etereo e imponderabile, angelico o demoniaco, da registrare, trasmettere e manipolare come un segnale. Nella costruzione del simulacra la mediazione filtrante del codice sarebbe cruciale e questa mediazione sottrarrebbe al corpo la sua caratteristica più importante, quella di essere immerso in un contesto e in una storia in cui la materialità, l’esperienza del mondo e la sostanzialità sono fondamentali. Insomma, come l'informazione è irriducibile alla materia, anche la materia non si può ridurre del tutto all’informazione.

Supponiamo comunque di accettare questa prospettiva postumana, che ci farebbe approdare a un essere di pura informazione. Come potrebbe questo essere interagire con il mondo? Brillouin dimostrò in anni lontani che l’interazione tra materia e informazione richiede la presenza di un supporto materiale o energetico su cui l’informazione si possa adagiare, quindi un essere di pura informazione è un’astrazione mistica: anche le nostre idee più astratte, che possono spingerci ad azioni materialissime, sono incarnate nella configurazione dei nostri neuroni. Detto altrimenti: un essere di pura informazione come potrebbe essere percepito, e da chi? E se non fosse percepito, come potremmo verificarne l’esistenza se non con un atto di fede? Rischierebbe, il nostro post-uomo incorporeo di essere l’unico osservatore e interlocutore di se stesso, una sorta di monade autoreferenziale incapace di comunicare con altri.

Un altro problema: che ne sarebbe dell’identità e del Sé, che non sarebbero più legati al corpo e alla sua immersione contestuale, bensì all’informazione trasferibile, in una prospettiva analoga a quella dell’intelligenza artificiale funzionalistica? Non si tratta di una questione troppo peregrina, perché già quel processo di decodifica (parziale) dell’essere umano che è la mappatura del genoma ci pone di fronte alla domanda “chi siamo?” in termini nuovi e radicali. Se (il codice di) un essere umano può essere compresso e stare tutto su un libro o su un disco, che ne è della sua coscienza, intelligenza, sensibilità? Che cosa diventa l’“io” di fronte a questo riduzionismo informazionale?

La mappatura del genoma ci pone in una situazione in cui oggetto e soggetto si confondono. Anzi, se l’oggettivazione fosse, come si vorrebbe, completa, il soggetto rischierebbe di sparire del tutto, con conseguenze bizzarre e forse crudeli. II soggetto divenuto puro oggetto somiglierebbe a colui che in piena consapevolezza si vede precipitare in un burrone senza poter far nulla per impedirlo: per esempio potrei sapere in anticipo che sto per cadere preda di una malattia grave, senza poter fare nulla per evitarla. Come negli incubi dove non si riesce né a scappare né a gridare aiuto. Ma evitare la malattia non sarebbe necessario, visto che non sarebbe necessario possedere un corpo, cioè il luogo dove la malattia si potrebbe manifestare...

E più sottilmente: divenuto soggetto oggettivato, potrei ricavare un quadro completo delle mie capacita fisiche e intellettuali, gettando in qualche misura un’occhiata al mio futuro, ma come emergerei ai miei occhi? Come ne sarebbe modificata la mia esperienza del Sé? Non si può eludere la domanda dicendo che conoscere il genoma mi consente di modificare in meglio le mie caratteristiche, perché il problema è un altro: se l'oggettivazione del Sé è completa, chi è l’“io” che interviene sul “proprio” codice genetico per modificarlo? L’intervento non fa già parte dell’oggettivazione totale del soggetto, in un vertiginoso circolo autoreferenziale? Insomma, ho la sensazione che la presenza del corpo consenta quel minimo di distacco tra oggetto e soggetto che sperimentiamo al di là di ogni dubbio e che, come soggetti, ci rende titolari di numerosi possessi. Questi possessi si esprimono in locuzioni del tipo: “il mio corpo”, “il mio dolore”, “la mia mente”.

Inoltre se la decodifica del corpo fosse completa non solo metterebbe in correlazione biunivoca l’attività neuronale con I'esperienza soggettiva, ma potrebbe consentirci di trascurare del tutto quest'ultima: lo sperimentatore fornirebbe un impulso al mio cervello e saprebbe dallo schermo che cosa stessi provando senza neppure domandarmelo. Anche le mie decisioni sarebbero prese in un regime di libertà vigilata: osservando l’attività biochimica del mio encefalo, lo sperimentatore saprebbe con un piccolo anticipo che sto per decidere o pensare la tal cosa. La mia coscienza (ma avrebbe ancora senso parlare di coscienza?) arriverebbe sempre un po’ in ritardo e registrerebbe come libera scelta uno stato "oggettivo" anteriore. E che ne sarebbe della mia storia personale? Delle mie esperienze passate? Se, come pare, esse sono rappresentate nei miei neuroni, sarebbero comprese nella codifica: ma come si configurerebbe l’atto di richiamare un'esperienza o un ricordo? Non sarebbe necessaria una dinamica della codifica? O una codifica gerarchica? E in questa gerarchia potrebbe esserci lo spazio per una distinzione tra oggetto e soggetto? Domande formidabili, che, bizzarramente, nascono da una semplice congettura, da un esperimento concettuale che forse non ha nulla a che fare con qualsiasi realtà: glossolalia, parleurismo, visionarietà verbale...

Ma non facciamoci intimorire dalla natura congetturale di tutto ciò, e riprendiamo il problema del Sé in questa particolare prospettiva post-umana. Se tutto il Sé può essere codificato e passare da un supporto all’altro, se un essere umano può identificarsi col suo software o codice senza nessun collegamento necessario con il suo hardware di partenza, non c’è più identificazione tra il Sé e un corpo particolare. Il cordone ombelicale sarà tagliato e ciascuno potrà assumere liberamente uno o più corpi, nei quali replicare esattamente il codice che gli corrisponde. Si apre qui un vertiginoso problema filosofico: se l’informazione che costituisce il mio Sé viene trasferita su un supporto diverso, dove sto “io”? Non mi identifico con il supporto materiale d'origine e neppure con quello d'arrivo, che sono entrambi del tutto occasionali, ma non mi identifico neppure con il codice, che può essere riprodotto a volontà con tutta la precisione che voglio. Allora, in questa prospettiva di corpo­mente codificato e disincarnabile a piacere, dove si colloca il Sé? Dove sta la mia coscienza? Se poi suppongo di riprodurre il codice in molti supporti. ciascuno di questi “cloni” si evolverà per conto proprio, in modo più o meno diverso dagli altri: il mio Sé si moltiplicherebbe come si moltiplica ad ogni istante l’universo in quelle versioni della meccanica quantistica che sono dette dei molti mondi... Ancora una volta: dove sta il mio Sé?

Speculiamo ancora: se un giorno, in una sorta di mondo dell’informazione totale, non fosse nemmeno più necessaria la materia, e gli esseri umani diventassero le creature angeliche e incorporee di tanti miti e leggende? Creature di luce, anzi d’informazione. Dando ragione a quanti ritengono che l'uomo attuale non è altro che uno stadio preliminare dell’Uomo vero che verrà.

Ma prima, a quanto pare, dovremo affrontare i problemi sollevati dalla mappatura genomica, che forse ci sta proprio incamminando verso quel mondo postumano: da una parte, fornendoci il codice della vita, la mappatura pretende di dirci chi è davvero ciascuno di noi secondo una visione deterministica molto discutibile ma da molti accettata (spunta ancora una volta un perentorio riduzionismo informazionale che pretende di dirci la verità); dall’altra la possibilità di modificare il software, cioè di riprogrammare il genoma con tecniche finalistiche (anche queste molto discutibili perché acontestuali e basate su una supposta linearità causale tra geni e tessuti e tra genie caratteri) prelude a un profondo mutamento etico e cognitivo.

Sarà la fine del creazionismo teleologico che assegna all’uomo un posto privilegiato tra gli animali (in fondo uomo e scimpanzé hanno quasi lo stesso patrimonio genetico...); sarà la fine della riproduzione sessuale e quindi di una fonte importante di diversità genetica (la clonazione renderebbe superfluo l’accoppiamento, con disappunto di molti); sarà la fine di molte dispute filosofiche e psicologiche (sul libero arbitrio, sulla coscienza, sull'inconscio). Potrebbe essere la fine del corpo: una volta trovato il genoma perfetto, che cosa ci guadagneremmo a incarnarlo in un corruttibile corpo? Anzi che cosa ci guadagnerebbe lui, il GGG (il Grande Genoma Generale) a farsi incarnare? Che cosa ci guadagna il bibliomane dalla lettura effettiva dei suoi libri? Che cosa ci guadagnano i libri dalla lettura, o addirittura dalla scrittura, che ne possiamo fare? Tutto sembra regredire verso il regno dell’informazione-sempre-più-rarefatta, dove il GGG veglia su sé stesso nei secoli dei secoli. Amen

Andiamo davvero verso il postumano? E ci piace? 

Lo splendore del fenotipo

A proposito del riduzionismo informazionale che ispira Ia costruzione del postumano disincarnato di cui abbiamo congetturato, c’è da chiedersi se il riduzionismo genetico che sta alla base della biologia molecolare abbia senso. Si stratta di un riduzionismo informazionale e deterministico ispirato al cosiddetto “Dogma centrale della biologia molecolare” enunciato da Francis Crick nel 1958, sulla base della scoperta della struttura del Dna ad opera sua e di James Watson nel 1953. Il dogma affermava che l’informazione genetica, codificata nell’alfabeto di quattro lettere del Dna, e codificata senza possibilità di errore nella molecola dell’Rna e poi nell’alfabeto di venti lettere delle proteine. Poiché queste macromolecole sono alia base della nostra struttura, del nostro metabolismo e delle nostre funzioni dalla nascita alla morte, sembrava compiuto il programma meccanicistico che voleva ricondurre la biologia nell’ambito delle scienze fisico-matematiche. In questo quadro gli organismi viventi si distinguono dal resto della materia solo per il meccanismo della riproduzione, che passa da una generazione all’altra il codice vitale. L'interazione dei viventi con l’ambiente e solo negativa, e si manifesta nell’eliminazione degli individui che hanno avuto la disgrazia di ereditare un patrimonio genetico svantaggioso per mutazioni casuali.

Questa concezione infomeccanica della vita si può riassumere dicendo che sia il vivente sia il non vivente sono costituiti da elementi discreti e senza collegamenti tra loro. Nel vivente questi componenti sono costruiti da meccanismi deterministici sulla base di comandi inderogabili contenuti nel genoma (non sfugge l’analogia informatica tra il genoma e un programma di calcolatore). II programma di costruzione, scomponibile in sottoprogrammi separati e autonomi (i geni), porterebbe alla costruzione univoca di un organismo. Le critiche a questa visione, mosse soprattutto da quanti si occupavano di embriologia e genetica degli organismi più complessi, multicellulari, rilevavano che il comportamento dei diversi livelli gerarchici in cui e organizzata la vita (molecole, cellule, tessuti, organi, organismi, ecosistemi) e retto da regole diverse. Già negli anni ‘70 il genetista Conrad Hal Waddington si era fatto portavoce della necessità di una svolta concettuale, il paradigma fenotipico, che tenesse conto, oltre che della componente genetica, anche della storia. A parità di patrimonio genetico, la storia di ogni individuo e diversa, quindi diverso e ciò che appare all’osservazione (il fenotipo). E la storia è diversa perché diverse sono le interazioni di ogni organismo con I'ambiente.

La critica di Waddington investiva, in fondo, la concezione acontestuale dell’informazione di cui si era fatto portavoce Shannon e che, trasferita dal campo dell’ingegneria, stava alla base del dogma centrale: in realtà, non solo non era plausibile che i geni fossero incorrelati, ma non era neppure plausibile che I'informazione ricevuta tramite l'interazione con l’ambiente non avesse nessun effetto sullo sviluppo dell’organismo. Waddington metteva in dubbio il determinismo e le capacità predittive del modello meccanicista. Non ho né il tempo né la competenza per passare in rassegna le contraddizioni che via via sono state rilevate nella visione derivata dal dogma centrale di Crick (vedi per esempio Buiatti 2000)[1] e che hanno portato a una profonda revisione della concezione del vivente, nel senso della complessificazione, della comunicazione fra molecole, dell’ambiguità e della versatilità.

Si è sempre più consapevoli dell’errore determinista, dell’insufficienza del riduzionismo di tipo fisico perle spiegazioni globali della vita: poiché nella genesi e nelle relazioni degli organismi con l’ambiente esiste una zona di imprevedibilità, siamo costretti a rinunciare all’idea (che sa tanto di ideologia) che il codice genetico sia davvero una rappresentazione fedele della “vera” identità dell’individuo o addirittura una base sufficiente per I a sua riproduzione (oltre che riparazione terapeutica). E, nel caso dell’uomo, non solo dell'identità in senso astratto (e imprecisato: che cosa vuol dire identità? Distinguibilità dall'altro? Descrizione esauriente, e in vista di quale scopo?...), ma anche delle caratteristiche, delle inclinazioni e del destino di ogni singolo individuo, o meglio, di ogni singola persona. La scoperta che il patrimonio genetico di un umano differisce di pochissimo da quello di una scimmia antropomorfa e contiene grosso modo il doppio dei geni del corredo di un mosca (viene in mente il film La mosca , che ha avuto almeno tre rifacimenti per la suo contenuto raccapricciante e altamente simbolico) ha creato tra i ricercatori un certo disappunto, che però si è trasformato subito in pacata consapevolezza: l’uomo, che in fondo equivale a due mosche, non può essere quel miracolo della natura che ha sempre creduto di essere.

Ma questa scoperta dev’essere confrontata con un’altra: il numero complessivo di nucleotidi A, T, G, C nell’uomo e di circa tre miliardi per cellula, mentre i batteri ne hanno da cinquecentomila a 5-6 milioni. E la porzione codificante dei geni, quella che viene trascritta e tradotta in proteine, che non differisce tanto da un batterio all’uomo: nel batterio questa porzione raggiunge l’80-90% del genoma, negli esseri umani e appena il 2%. Il resto, che veniva chiamato con sufficienza “genoma spazzatura”, ha una funzione importantissima, perché contiene gran parte delle indicazioni per le funzioni di regolazione dinamica. È il genoma “spazzatura” che racchiude il miracolo della complessità: è lì che sta la giustificazione della nostra indefettibile consapevolezza che l’uomo è infinitamente superiore alla mosca, qualunque sia il metro di valutazione che si possa ragionevolmente proporre. O almeno, se non si vuole peccare di razzismo nei confronti dei ditteri, è infinitamente diverso da una mosca.

Allora? Allora non si può non concludere che il Dna-codice non spiega la specificità: più si scende verso il livello molecolare più le differenze si attenuano fin quasi a scomparire. A livello del codice genetico una vongola e un cavallo si somigliano molto, ma a livello fenotipico quelle difference! Insomma, il determinismo genetico si basa su un uso indebito ed eccessivo del riduzionismo. La corrispondenza tra genie tratti individuali è tutt'altro che biunivoca e, inoltre, le ricche e continue interazioni che il fenotipo intrattiene fin dal suo primo apparire con l’ambiente rendono inconcepibile questo determinismo.

Che cos'è dunque che rende un cavallo diverso da un paguro o un uomo di verso da un gorilla? Cominciamo a capire che è la complessità concertata, la dinamica delle interazioni fini, la catena degli eventi che si innescano l’un l’altro con precisa scansione temporale grazie ai segnali che si propagano in una rete di comunicazione costituitasi e perfezionatasi nel corso dell'evoluzione. Queste scoperte, che negano la possibilità di una descrizione e determinazione esauriente dell’individuo da parte del testo genetico, ma che postulano una descrizione dinamica, una narrazione, ci risparmiano tra I'altro una serie di grandi e faticose rivoluzioni psicosociali.

infatti nell'ipotesi deterministica dovremmo rivedere a fondo la nozione di morale e molte istituzioni civili: sparirebbe la libertà e con essa sparirebbero la colpa, il merito e la responsabilità. Il bene e il male si dileguerebbero, l’amministrazione della giustizia, le prigioni e i tribunali diverrebbero superflui (quanti disoccupati!), la società si semplificherebbe al massimo e si attuerebbe il sogno dei tecnologi più accaniti, che vedono nella variabilità dell’uomo l’unico limite ai loro sogni di efficienza. (Insomma è significativo che la storia abbia implicitamente avvalorato la tesi della complessità dell’uomo, rispecchiandola nella complessità delle istituzioni sociali.)

Questa semplificazione e questo annullamento di responsabilità si salderebbero con le promesse della delega tecnologica che sempre più siamo portati a compiere in favore delle macchine informazionali. Ogni azione sarebbe riconducibile a un gene o a un computer, oppure a un computer genetico o a un gene computerizzato: a questa punto la nozione di persona legata al concetto di dignità, di bene e male, di libero arbitrio e di responsabilità si avvierebbe al tramonto: malinconico per alcuni, gioioso per altri (e questa differenza di giudizio, a quale mai gene si deve attribuire?).

Se a livello molecolare le differenze tendono a svanire, è a livello alto, a livello dell’individuo, che esse si manifestano, e non soltanto tra la vongola e il cavallo, ma anche tra un cavallo e l’altro, tra Nearco e Varenne, tra Pietro e Paolo, tra me e te, cara lettrice o caro lettore. È questo il livello in cui del ferreo determinismo implicato dal libro genetico non resta quasi più traccia a causa delle perturbazioni ambientali, feconde di novità e di informazione. A livello infimo quell'odioso strumento da barbitonsore che è il rasoio di Occam sembra poter funzionare, a livello alto (per fortuna, dico io) no. Seguendo la lezione quantitativa di Goethe, il biologo e antropologo svizzero Adolf Portmann (1897-1982) osserva che le differenze tra le specie eccedono di molto le loro necessità funzionali, così come le capacita dell’uomo eccedono di gran lunga le sue necessità di sopravvivenza. I viventi, dice Portmann, manifestano la loro bellezza e potenza a livello dell’immagine e s’impongono per portamento e atteggiamento.

È nella manifestazione fenomenica che la vita esibisce il suo splendore, non nelle lontane e invisibili fondamenta genetiche: noi viviamo immersi nello stupore del mondo, è da questa luminosa epifania che scaturiscono l’afflato poetico, l’urgenza fabbricatrice, e anche lo slancio della conoscenza scientifica: è in questa dispiegata ricchezza che trovano posto le emozioni, la parola, il canto. Tra la variegata tavolozza del fenomeno nel suo darsi e l’oscuro lavorio del Dna c’è la stessa distanza che separa la complessità psicologica, sociale e poetica dell’amore dalla sua meccanica traduzione gametica finale. Non è fuori luogo osservare che quanto più raffinata e complessa è l’organizzazione del fenotipo, tanto più l’espressione della forma s’incentra nella sua testa (ogni umano ha un viso diverso): quando amiamo, il nostro amore è diretto a una persona, a quella particolare persona, identificata non certo dal genoma, ma da quella lontana e filtrata emanazione, da quel riverbero ricco e cocente che è il suo viso, bocca, sguardo, sorriso: per cui essa entra in noi e vi rimane come l’icona del nostro destino.

Vorrei concludere citando alcune frasi da un appassionato articolo di Giuseppe Sermonti: “Lo spettacolo della natura, le forme viventi, e anche quelle minerali, la commedia umana, hanno le origini in sé. [...] Mai ne troveremo la ragione o lo scopo nell’invisibile sprofondo delle cose, dove le ere passate hanno lasciato i loro depositi. Questi, si chiamino l’eco del big bang, il Dna cellulare, gli elettroni o la rete neurale, raccontano cupe storie di pazzia e di decadenza, gelidi destini di caos e di oscurità e invano cercheremo in essi le ‘cause’ della realtà. Sarebbe come cercare la trama di un romanzo nei neuroni del narratore o il fervore shakespeariano della passione di Romeo nella formula del testosterone. [...] II dominio dell’atomismo e del Dna durerà ancora a lungo. Durerà fino a un’alba lontana, in cui ci saremo stancati del nostro destino di automi, del nostro percorso sul baratro. Ci ribelleremo allora agli obblighi molecolari e torneremo a pretendere l’amore e l’odio, la purezza e il crimine, la parola e la croce. Finché verrà un poeta che troverà in queste follie la prova dell’esistenza di Dio.” Sermonti, 2002)[2].

La posizione di Sermonti e di Portmann potrebbe sembrare spiritualistica: in realtà essa rivendica un forte radicamento dello spirito nella materialità del corpo esibito e manifestato e denuncia l’insufficienza dell’informazione astratta (genetica) che non sia incarnata e dispiegata in un corpo. II livello di spiegazione elementare, insomma, non basta. Se la verità e ricchezza della forma adulta fosse tutta implicita nel suo codice, saremmo in una situazione simile a quella della matematica: nel suo svolgimento “narrativo” la matematica è l’esplicitazione di una tautologia. Ma si osservi che non esiste matematica senza un matematico che la produca, la crei, la pensi: quindi anche nel caso della matematica la natura tautologica dei procedimenti è temperata dalle interazioni del matematico con la realtà esterna (solo all’occhio onnisciente di Dio la matematica è una vera tautologia: ma che ne sappiamo noi di Dio?). Ancor più nel passaggio dal genoma all’organismo il “racconto” modifica se stesso, anzi modifica le proprie premesse tramite l’interazione con l’ambiente. Solo il mondo nel suo complesso è una tautologia. Forse.

 



[1] Buiatti M., Lo stato vivente della materia, UTET, Torino 2000.

[2] Sermonti G., Identità molecolare e perdita dell’anima, Rivista Rosiminiana, XCVI, Fasc. II-III, pp. 195-201.