Riduzionismo informazionale e postumano

di Giuseppe O. Longo
Pubblicato su "Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati", CCLX, serie VIII, vol. X. B, Classe di Scienze matematiche, fisiche e naturali, Rovereto, 2010, pagg. 35-48.


 

Premessa: la simbiosi

La simbiosi (dal greco: vita in comune) è un'associazione stabile e strettamente integrata tra due organismi che porta vantaggi reciproci a entrambi. Pur con tutte le cautele, necessarie per la natura metaforica della proposta, anche il rapporto tra l’uomo e la tecnologia si può considerare una simbiosi, il cui risultato è il simbionte homo technologicus. Del resto l’uomo è in simbiosi, da sempre, non solo con i suoi strumenti, ma anche con i batteri, i cibi, i medicinali, le piante, gli animali domestici...

L’uomo costruisce gli strumenti e questi ultimi, retroagendo sull’uomo e incistandosi in esso, lo modificano. In passato l’esistenza e la perpetua trasformazione del simbionte homo technologicus erano poco visibili, tanto da autorizzare, in molte filosofie e in molte religioni, una visione fissista della natura umana. Oggi, per la velocità e il continuo potenziamento della tecnologia, il fenomeno è diventato piuttosto evidente. Da sempre il corpo umano è stato ampliato da strumenti e apparati che ne hanno esteso e moltiplicato le possibilità d'interazione col mondo, in senso sia conoscitivo sia operativo. Inoltre, dopo un lungo periodo di esplosione, in cui l’uomo si è circondato di vere e proprie estroflessioni satellitari, oggi la tecnologia implode: il nostro corpo è invaso da dispositivi miniaturizzati che interagiscono in modo fine con gli organi e financo con le cellule del corpo.

L'uso degli strumenti si configura non tanto come l’aggiunta di protesi, quanto come una vera e propria ibridazione: la protesi supplisce a un’abilità compromessa o perduta, mentre, innestandosi nell'uomo, ogni nuovo apparato dà luogo a un'unità evolutiva (un simbionte) di nuovo tipo, in cui possono emergere capacità - percettive, cognitive e attive - inedite e a volte del tutto impreviste, e di questa evoluzione ibridativa non è possibile indicare i limiti. Come l’uomo fa la tecnologia, così la tecnologia fa l’uomo. Molte delle capacità del simbionte uomo-computer, per esempio, erano affatto imprevedibili e non è improprio dire che l’unità cognitiva “uomo-col-computer” è essenzialmente diversa dall’unità cognitiva “uomo-senza-computer”.

Inoltre ciascuno di noi, più o meno circondato e invaso dalla tecnologia, sta diventando una cellula ibrida di una sorta di macroorganismo che invade tutto il globo e di cui Internet è il sistema nervoso embrionale. Ci avviamo a diventare gli elementi costitutivi, i neuroni, gli organi, le cellule, di una creatura planetaria che si sta sviluppando tramite i meccanismi tipici di ogni sistema complesso: l'autoorganizzazione, l'autocatalisi, la coevoluzione, la simbiosi, l’emergenza. Questa creatura potrebbe diventare sede di un'intelligenza collettiva e forse di una coscienza collettiva, e in essa si sta attuando una progressiva confusione tra naturale e artificiale, tra le caratteristiche tipiche dei sistemi viventi e quelle dei sistemi non viventi. In particolare non solo le macchine diventano sempre più simili agli umani, ma gli umani sono sempre più modificati dalle macchine, a livello fenotipico e alla lunga anche genotipico. La tecnologia invade il biologico, ma a sua volta il biologico offre modelli e materiali per la costruzione dell'artificiale. Questa sorta di “convergenza evolutiva” tra biologico e artificiale mette in discussione l'immagine tradizionale di un mondo del vivente ben separato dal mondo del non vivente artificiale.

1. Il postumano in codice

L’ibridazione biotecnologica e il profilarsi della creatura planetaria si possono assimilare all’avvento di un nuovo stadio evolutivo dell’umanità, caratterizzato dall’intreccio sempre più intimo di biologia e tecnologia e dall’interconnessione in rete dei simbionti. Si tratta ovviamente di uno scenario, ma sono molti i segni che ci inducono a considerarlo molto plausibile. Per indicare i protagonisti di questo nuovo stadio dell’evoluzione, e in generale le creature che abiteranno il mondo, si è coniato il termine “postumano”. Le forme in cui si declina questo concetto sono molte, alcune delle quali esotiche e inquietanti. Tutte pongono problemi concettuali, pratici ed etici: anche le tecniche di procreazione assistita, di cui tanto si discute anche oggi, dopo l'assegnazione a Robert Edwards del premio Nobel per la medicina, rientrano nella prospettiva del postumano, dal momento che non mirano alla “riproduzione” bensì alla “produzione” dell’uomo secondo specifiche più o meno precise.

Nonostante l’apparente bizzarria del concetto, il postumano richiede dunque con insistenza un’indagine analitica che ne prefiguri modi, possibilità e limiti. Speculiamo allora su una delle possibilità che si offrono al postumano, quella di diventare un'entità di solo codice, un postumano disincarnato. Questa possibilità, caratterizzata dalla prevalenza assoluta dell'informazione sul suo supporto materiale (il corpo), scaturisce dall'importanza preponderante che ha assunto l'informazione nella società odierna. Si tratta di una versione particolare ed estrema del postumano, all’insegna di un riduzionismo informazionale che sembra trovare molti sostenitori entusiasti.

Nel postumano in codice il corpo è divenuto superfluo, anzi è addirittura scomparso. O meglio: è diventato indifferente, è stato sostituito da un supporto arbitrario, che serve solo a contenere lo sciame di bit che ne descrivono la struttura. In questo postumano, insomma, ciò che conta non è la materia, l'hardware, bensì il software. Si postula che l'informazione contenuta nel mio corpo si possa estrarre e introdurre pari pari in un altro corpo, in una macchina, nella ferraglia e nel silicio di un robot. Se l'identità di un Sé consiste in una certa configurazione neuronale, in un insieme di forme d'onda, allora il corpo (biologico o biotecnologico) diventa una sede occasionale e trascurabile di quel Sé, che può essere trasferito in qualunque altro supporto. Il corpo cessa di essere ciò che è sempre stato: il segno distintivo ultimo dell'identità individuale.

Nella prospettiva del postumano in codice sembra attuarsi l'affrancamento da quell'ingombrante fardello che è il corpo: l'eliminazione di questo greve residuo di un'umanità primitiva e limitata è sempre stato il lucido sogno razionalistico della nostra civiltà. Con la sua riottosa propensione al peccato, con la sua imbarazzante capacità seduttiva, con la sua scandalosa attività copulatoria, con la sua miserabile caducità, il corpo si è sempre opposto all'aspirazione filosofica e scientifica di costruire un mondo puro, asettico, durevole, aspirazione che tocca il suo culmine nella seconda metà del Novecento con l'impresa dell'intelligenza artificiale (IA) funzionalistica. Scenario bizzarro, aberrante, ma non arbitrario, come cercherò di chiarire.

2. Informazione e supporto

Una tessera importante del mosaico concettuale che sostanzia il passaggio dall'umano al postumano disincarnato, cioè dal corpo biologico al corpo codificato, venne collocata da Claude Shannon nel 1948. La sua teoria matematica dell'informazione nacque all'insegna di un paradosso: da una parte l'informazione è un'entità sistemica, che ha senso, valore e significato solo nell'ambito di un contesto; dall'altro la formalizzazione shannoniana si ispirava a uno strumento acontestuale, rappresentato da una matematica che si era sviluppata in stretta interazione con la fisica riduzionistica.

Qui mi preme soprattutto mettere in luce il rapporto tra informazione e supporto. L'informazione consiste in differenze: differenze (di colore, forma, grana, peso...) tra oggetti, tra il prima e il dopo (cioè tra lo stato anteriore e lo stato successivo di un oggetto), tra le varie parti di uno stesso oggetto... La presenza dell’“oggetto” indica che l'informazione, per manifestarsi, per essere elaborata e trasmessa, ha bisogno di un supporto materiale. L'informazione non può essere ridotta al supporto, ma ne ha bisogno. Inoltre, almeno in prima approssimazione, l’informazione può essere estratta da un supporto e trasferita in un altro senza alcuna perdita o distorsione. L’informazione sarebbe dunque invariante rispetto all’operazione di codifica.

Ma questa invarianza, evidente nella formalizzazione di Shannon, sussiste (e anche qui con certe limitazioni) solo in un caso particolare, molto semplice anche se importantissimo, che è il caso digitale, in particolare il caso binario, dove ciò che importa è distinguere un oggetto o segnale o messaggio dagli altri, e dove la forma specifica di ciascun segnale non ha alcuna importanza. La differenza tra “0” e “1” è codificabile senza residui nella differenza tra “nero” e “bianco”, tra “aperto” e “chiuso”, tra “sole” e “pioggia” e così via. Il fatto che la forma di “1” sia diversa dalla forma di “nero” e di “sole” non ha alcuna importanza.

In generale tuttavia l'informazione non è invariante rispetto alla codifica e il passaggio da un supporto a un altro non è senza conseguenze. Nel caso analogico, dove non basta distinguere un messaggio dall'altro, ma si deve riprodurre con buona approssimazione la loro forma, la codifica può distorcere l'informazione e comprometterla. Un concerto scritto per violino non può essere eseguito col trombone senza gravi distorsioni. Non tutti i supporti si lasciano modulare allo stesso modo: ogni supporto oppone una resistenza specifica all'inserimento delle differenze che rappresentano l'informazione e questa resistenza rivela che informazione e supporto intrattengono una relazione molto intima. Come l'informazione condiziona il supporto, così il supporto condiziona l'informazione.

Da questa ineludibile interazione scaturisce l’obiezione principale all'IA funzionalistica, secondo la quale basta individuare e descrivere con precisione le funzioni della mente umana e poi trasferire questa descrizione in un calcolatore perché questo si comporti come la mente. Secondo alcuni, invece, le funzioni che si svolgono in un certo supporto sono legate profondamente e intimamente a quel supporto, e non si possono trasferire altrove senza perdite, modifiche e distorsioni.

Anzi, il funzionalismo opera un passaggio intermedio ancora più sottile: le funzioni della mente sono assimilabili a certe operazioni logiche (che si svolgono fuori di ogni tempo e materialità) e queste operazioni logiche, che sono la vera essenza del mentale, possono essere proiettate su svariati supporti (cervello, computer...) in modo assolutamente isomorfo. Il funzionalismo ignora cioè la natura materiale non solo della macchina, ma anche della mente. Quando si afferma che il calcolatore funziona secondo i principi della logica, si commette un errore: il calcolatore non è una macchina logica, bensì una macchina materiale, dunque lavora per causa-effetto e tra causa ed effetto c’è sempre un ritardo temporale. Nella logica classica il tempo non esiste, mentre nel calcolatore esiste: ci sono i ritardi, e i ritardi si accumulano. La proiezione o mappatura della logica sul calcolatore è una mappatura imperfetta, tanto che, se le operazioni per unità di tempo diventano troppe, si presentano effetti di saturazione e la macchina funziona male. Allo stesso modo, neppure la mente funziona secondo i principi della logica, ma è condizionata dal funzionamento (fisico-causale) del suo supporto, il cervello.

3. Il riduzionismo informazionale

Il parziale fallimento dell'IA funzionalistica ha portato a due reazioni molto diverse, entrambe tuttavia imperniate sul corpo: da una parte alcuni si sono convinti che per simulare un'intelligenza che abbia caratteristiche non troppo lontane da quella umana si debba adottare una prospettiva sistemica, cioè si debba dotare il cervello artificiale di un corpo artificiale in interazione con l'ambiente e magari anche adottare un'impostazione di tipo evolutivo, che simuli quanto è accaduto nella storia della biologia: questa è la via intrapresa dalla robotica. Altri non hanno accettato la sconfitta e hanno, all'opposto, radicalizzato il tentativo, codificando non solo la mente ma anche il corpo. Questa è la strada che conduce al postumano in codice.

Se fosse possibile parlare di informazione in sé, se fosse possibile ridurre la musica a codice, o la macchina a progetto, se - per fare un esempio ancora più estremo - se l'uomo si potesse ridurre alla sua sequenza genomica, allora perché eseguire la musica, perché costruire veramente le macchine, perché fare i figli? L'attuazione materiale sarebbe solo un pleonasmo ridondante, che non dimostrerebbe nulla e che anzi, con la sua imperfezione attuativa rispetto alla perfezione del modello astratto, segnerebbe uno scadimento intollerabile.

Ciò ricorda la filosofia platonica, che assegnava preminenza alle idee rispetto alla loro attuazione materiale. Ma noi sappiamo, perché lo intuiamo al di là di ogni ragionamento e argomentazione (e soprattutto perché lo esperiamo nel corso della nostra esistenza), che la vita non è puro codice, che il corpo in cui il codice s'incarna ha una sua collocazione centrale in questo vasto e inafferrabile fenomeno. Del resto anche un'attività come la matematica, che sembra puramente formale, rivela un profondo legame con la materialità del suo supporto.

Come ha mostrato la storia, già il tentativo dell’IA di codificare la mente per trasferirla dal supporto originario in un altro comporta semplificazioni e distorsioni essenziali che rendono il risultato molto discutibile. Eppure molte attività della mente sono formali, appartengono cioè al mondo dell'informazione, ed è su questo che si è basata l'intelligenza artificiale funzionalistica. Ma il corpo, per la sua natura fisica e biologica, appartiene anche al mondo della materia, perciò quando se ne estrae l'informazione per incarnarla in un altro supporto, molte sue caratteristiche originarie vanno perdute. Queste caratteristiche potrebbero comprendere la possibilità di nuotare, di mangiare, di far l'amore... e tutto sta a vedere se vogliamo considerarle essenziali oppure no per la definizione di corpo, o meglio per considerare il nuovo supporto un sostituto accettabile del corpo.

Per alcuni il corpo codificato sarebbe solo un simulacro di corpo, che non ne conterrebbe tutta l'essenza. Insomma se volessimo dissolvere il corpo trasformandolo in uno sciame di bit, sospesi in aria (o nel ciberspazio) in attesa di nuova destinazione non potremmo farlo fino in fondo: non potremmo travasare nel software tutta la resistenza e la sodezza e la ricchezza della materia e quindi la reincarnazione sarebbe incompleta. Il corpo continuerebbe dunque ad essere l'orizzonte assoluto della nostra esistenza, l'ultimo ostacolo all'immersione totale nella virtualità. Il corpo reale non si potrebbe ridurre a un fantasma etereo e imponderabile, angelico o demoniaco, da registrare, trasmettere e manipolare come un segnale. Nella costruzione del simulacro la mediazione filtrante del codice sarebbe cruciale e questa mediazione sottrarrebbe al corpo la sua caratteristica più importante, quella di essere immerso in un contesto e in una storia in cui la materialità, l'esperienza del mondo e la sostanzialità del cibo sono fondamentali. Insomma, come l'informazione è irriducibile alla materia, anche la materia non si può ridurre del tutto all'informazione.

Supponiamo comunque di accettare questa prospettiva postumana, che ci farebbe approdare a un essere di pura informazione, privo di supporto. Come potrebbe questo essere interagire con il mondo? L'interazione tra materia e informazione richiede la presenza di un supporto materiale o energetico su cui l'informazione si possa adagiare, o meglio si possa incorporare, quindi un essere di pura informazione è un'astrazione mistica: anche le nostre idee più astratte possono spingerci ad azioni materialissime, e questo perché sono incarnate nella configurazione dei nostri neuroni e si incanalano poi nelle strutture energetiche e materiali del corpo. Se così non fosse, si riproporrebbe il problema dell’interazione tra res cogitans e res extensa affrontato senza successo da Cartesio. Detto altrimenti: un essere di pura informazione come potrebbe essere percepito, e da chi? E se non fosse percepito, come potremmo verificarne l'esistenza se non con un atto di fede? Rischierebbe, il nostro post-uomo incorporeo, di essere l'unico osservatore e interlocutore di sé stesso, una sorta di monade autoreferenziale incapace di comunicare con altri.

Un altro problema: che ne sarebbe dell'identità e del Sé, che non sarebbero più legati al corpo e alla sua immersione contestuale, bensì all'informazione trasferibile, in una prospettiva analoga a quella dell'intelligenza artificiale funzionalistica? Non si tratta di una questione tanto peregrina, perché già quel processo di decodifica (parziale) dell'essere umano che è la mappatura del genoma ci pone di fronte alla domanda “chi siamo?” in termini nuovi e radicali. Se (il codice di) un essere umano può essere compresso e stare tutto su un libro o su un disco, che ne è della sua coscienza, intelligenza, sensibilità? Che cosa diventa l’“io” per effetto di questo riduzionismo informazionale?

4. La mappatura del genoma: scenario e problemi

La mappatura del genoma ci pone in una situazione in cui oggetto e soggetto si confondono. Anzi, se l'oggettivazione fosse, come si vorrebbe, completa, il soggetto rischierebbe di sparire del tutto, con conseguenze bizzarre e forse crudeli. Il soggetto, del tutto appiattito sull’oggetto, anzi divenuto puro oggetto, somiglierebbe a colui che in piena consapevolezza si vede precipitare in un burrone senza poter far nulla per impedirlo: per esempio potrebbe sapere in anticipo che sta per cadere preda di una malattia grave, senza poter fare nulla per evitarla. Come negli incubi dove non si riesce né a fuggire né a gridare aiuto. D'altra parte non sarebbe necessario evitare la malattia, visto che non ci sarebbe il corpo, cioè il luogo dove la malattia si potrebbe manifestare... E più sottilmente: divenuto soggetto oggettivato, potrei ricavare un quadro completo delle mie capacità fisiche e intellettuali, gettando in qualche misura un'occhiata al mio futuro; ma come emergerei ai miei occhi? Come ne sarebbe modificata la mia esperienza del Sé? Come ne sarebbe condizionato l’antico problema del libero arbitrio? Esisterebbe ancora il tempo, sede degli eventi (la malattia, il pensiero, la contemplazione, la corsa)? Quest’ultima domanda fa intravvedere il legame inscindibile tra corpo e tempo.

Certo, conoscendo il mio genoma potrei modificare in meglio le mie caratteristiche, ma qui si apre un altro problema: se l'oggettivazione del Sé è completa, chi è l’ “io” che interviene sul “proprio” codice genetico per modificarlo? L'intervento non fa già parte dell'oggettivazione totale del soggetto, in un vertiginoso circolo autoreferenziale? Insomma, si ha la sensazione che la presenza del corpo consenta quel minimo di distacco tra oggetto e soggetto che sperimentiamo al di là di ogni dubbio e che, in quanto soggetti, ci rende titolari di numerosi possessi. Questi possessi si esprimono in locuzioni del tipo: “il mio corpo”, “il mio dolore”, “la mia mente” e “il mio genoma”. Se tutto fosse oggettivato, se tutto fosse squadernato davanti ai “nostri” occhi, si ripresenterebbe l’antico paradosso del sistema che sa tutto di sé. Questa conoscenza dev’essere contenuta in un organo particolare, che fa parte del sistema e di cui quindi il sistema deve saper tutto. Ciò richiede un ulteriore organo della conoscenza, e così via, all’infinito.

Comunque non facciamoci intimidire dalla natura congetturale di tutto ciò, e riprendiamo il problema del Sé in questa particolare prospettiva post-umana. Se tutto il Sé può essere codificato e passare da un supporto all'altro, se un essere umano può identificarsi col suo software o codice senza nessun collegamento necessario con il suo hardware di partenza, non c'è più identificazione tra il Sé e un corpo particolare. Il cordone ombelicale sarà tagliato e ciascuno potrà assumere liberamente uno o più corpi, nei quali replicare esattamente il codice che gli corrisponde. Si apre qui un problema vertiginoso: se l'informazione che costituisce il mio Sé viene trasferita su un supporto diverso, dove sto “io”? Non mi identifico con il supporto materiale d'origine e neppure con quello d'arrivo, che sono entrambi del tutto occasionali, ma non mi identifico neppure con il codice, che può essere riprodotto in un numero arbitrario di copie (ciascuna col suo supporto) con tutta la precisione che voglio. Non esistendo il codice in astratto, ma solo le sue varie possibili incarnazioni, si dissolve l’idea di “originale”: ogni originale è una copia e viceversa. (Vengono in mente le considerazioni di Walter Benjamin sul concetto di opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.)

Allora, in questa prospettiva di corpo-mente codificato e incarnabile a piacere, dove si colloca il Sé? Dove sta la mia coscienza, alla quale in fondo sono affezionato? Se poi suppongo di riprodurre il codice in molti supporti, ciascuno di questi “cloni” si evolverà per conto proprio, in modo più o meno diverso dagli altri: il mio Sé si moltiplicherebbe come si moltiplica ad ogni istante l'universo in quelle versioni della meccanica quantistica che sono dette dei molti mondi... Ancora una volta: dove sta il mio Sé?

Per evitare i problemi di autoreferenzialità e di regresso all’infinito, potrei delegare a un terzo l’osservazione del mio corpo decodificato e ridotto a puro codice. Ora, se la decodifica fosse completa, non solo metterebbe in corrispondenza biunivoca l'attività neuronale con l'esperienza soggettiva, ma consentirebbe di trascurare del tutto quest'ultima: lo sperimentatore fornirebbe un impulso al mio cervello e saprebbe che cosa stessi provando senza neppure domandarmelo. Anche le mie decisioni sarebbero prese in un regime di libertà vigilata: osservando l'attività biochimica del mio encefalo, lo sperimentatore saprebbe con un piccolo anticipo che sto per decidere o pensare la tal cosa. La mia coscienza (ma avrebbe ancora senso parlare di coscienza?) arriverebbe sempre un po' in ritardo e registrerebbe come libera scelta uno stato “oggettivo” anteriore.

E che ne sarebbe della mia storia personale? Delle mie esperienze passate? Se, come pare, esse sono rappresentate nei miei neuroni, sarebbero comprese nella codifica: ma come si configurerebbe l'atto di richiamare un'esperienza o un ricordo? Non sarebbe necessaria una dinamica della codifica? O una codifica gerarchica? E in questa gerarchia potrebbe esserci lo spazio per una distinzione tra oggetto e soggetto? Domande formidabili, che, bizzarramente, nascono da una semplice congettura, da un esperimento concettuale che forse non ha nulla a che fare con qualsiasi realtà e che forse è frutto di pura visionarietà.

Eppure...

I problemi sollevati dalla mappatura genomica non finiscono qui: da una parte, fornendoci il codice della vita, la mappatura pretende di dirci chi è davvero ciascuno di noi secondo una visione deterministica molto discutibile improntata a un perentorio riduzionismo informazionale che si arroga l’esclusiva della verità; dall'altra la possibilità di modificare il software, cioè di riprogrammare il genoma, con tecniche finalistiche (anche queste molto discutibili perché acontestuali e basate su una supposta linearità causale tra geni e tessuti e tra geni e caratteri) prelude a un profondo mutamento etico e cognitivo.

Osservo che la pretesa di fornire la vera descrizione di un individuo, qualunque sia il procedimento adottato, è alquanto velleitaria: intanto perché un individuo si trova all'incrocio o alla confluenza di molte (infinite) descrizioni possibili, a seconda del livello di osservazione adottato e a seconda delle priorità stabilite dall'osservatore e dei suoi interessi. Nessuna di queste descrizioni è esauriente (questa ineludibile pluralità descrittiva si esprime anche dicendo che l'individuo è un sistema complesso) ed è solo il loro insieme (aperto) che porta asintoticamente verso la descrizione dell'individuo. In secondo luogo, e ancora più importante, ogni individuo è un processo, cioè è mutevole nel tempo, quindi le descrizioni debbono avere carattere dinamico. Questa storicità dell'individuo s'intreccia con la sua immersione in un contesto o ambiente con il quale si trova in continua interazione coevolutiva: da qui, in ogni istante, un brulicare di alterità dinamiche potenziali che mette in questione il concetto di identità e la possibilità stessa della descrizione.

Questo per ciò che riguarda l'osservatore-descrittore. Sul versante dell'individuo osservato, la storia e il contesto, interagendo con le potenzialità contenute nel patrimonio ereditario, attuano alcune possibilità (contingenze) e non altre a priori altrettanto probabili. (Ecco perché due gemelli omozigoti non sono mai del tutto isomorfi: le loro differenze scaturiscono dalle differenze, per quanto minime, tra le loro esperienze individuali.) Entra in crisi la nozione di (auto)biografia oggettiva: ciò che resta sono le storie, cioè le narrazioni situate, fatte da un punto di vista parziale, per esempio quello del soggetto.

La prospettiva di una descrizione genomica completa segnerebbe comunque la fine del creazionismo teleologico, che assegna all'uomo un posto privilegiato tra gli animali; la fine della riproduzione sessuale e quindi di una fonte importante di diversità genetica (la clonazione informazionale renderebbe superfluo l'accoppiamento, con disappunto di molti); segnerebbe la fine di molte dispute filosofiche e psicologiche (sul libero arbitrio, sulla coscienza, sull'inconscio), fors’anche per l’estinzione dei filosofi e degli psicologi dopo un lungo periodo di cassintegrazione. Potrebbe segnare la fine del corpo: una volta trovato il genoma perfetto, che cosa ci guadagneremmo a incarnarlo in un corpo corruttibile? Anzi che cosa ci guadagnerebbe lui, il GGG (il Grande Genoma Generale) a incarnarsi? Che cosa ci guadagna il bibliomane dalla lettura effettiva dei suoi libri? Che cosa ci guadagnano i libri dalla lettura, o addirittura dalla scrittura, che ne possiamo fare? Tutto sembra regredire verso il regno dell'informazione-sempre-più-rarefatta, dove il GGG veglia su sé stesso nei secoli dei secoli. Andiamo davvero verso il postumano? E ci piace?


Bibliografia

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